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23.1.06

Precariato - di Sonia

Una delle sensazioni che accompagnano il precario, che lo corrodono nel profondo, è la solitudine, accompagnata spesso dalla mancanza di comprensione. E, non ultimo, un profondo senso di impotenza davanti alla propria situazione, uno scoramento che sfiora - quando non abbraccia - la depressione, e rende tutto più difficile.
Può far sorridere sentire questo aneddoto, ma nell’ultimo call center dove ho lavorato (MKS che, per altro, dopo Atesia, è uno dei più grandi bacini di disperazione, e accoglie soprattutto laureati), tra le tanti menti sprecate mi è capitato uno psicologo, Andrea. Ricordo che mi ha guardata e mi ha detto “Sei un po’ depressa, vero?” . Un pensierino cinico mi si affacciò alla mente: magari, tra una chiamata e l’altra, ci scappa un po’ di analisi gratuita, ma venni subito smontata da quel che aggiunse dopo “ Io sono depressissimo, non mi hanno rinnovato il contratto a tempo alla ASL e nessuno mi vuole perché ho trent’anni”
E’ facile, da precari, scivolare in una solitudine invisibile e scoraggiata: chi può capirci? Non certo chi ancora studia; ed è giusto che nutra i propri sogni tra mille specializzazioni dai nomi sempre più esotici; ancor meno chi già lavora, spesso i nostri genitori sono quelli che meno degli altri possono dirci parole di saggezza.
In un mondo che si muove per economia, noi non abbiamo peso: redditi scarsi e incerti, impossibilità di accedere al credito, se non abbiamo la possibilità di vivere con la famiglia contraiamo – costipiamo, direi – i nostri consumi per pagare quel salasso mensile che risponde ancora erroneamente al nome di affitto, e che è assolutamente fuori controllo specie nelle metropoli.
Davanti a noi osserviamo uno scenario, se così si può dire, un edificio sociale crollato in cui noi siamo le macerie, e contempliamo il tutto in desolato silenzio.
E qui sta il nostro errore: siamo ammutoliti e scoraggiati, è difficile essere altrimenti, è vero, però se non iniziamo almeno a bisbigliare mai nessuno ci darà voce.
In questi ultimi secoli il mondo è cambiato a velocità vertiginosa, e i cambiamenti di oggi tolgono davvero la voglia di alzare la voce, soffocano persino le più ovvie parole.
Eppure io sono sempre del parere che si debba reagire, c’è chi dice che è inutile perché reclamare non permette di vivere tranquilli. Io mi chiedo se, chi dice così, si renda conto della differenza che c’è tra vivere e sopravvivere, e se si vive davvero tranqulli quando non si può sapere se anche domani potremo lavorare.
In Italia si è sempre accampati sul “particulare”, sui propri metri quadrati di eventuale proprietà, la Tv sempre accesa “perché fa compagnia” e il loculo che aspetta lì, al cimitero, come bocca vuota in attesa del pasto. Per questo siamo terreno fertile di situazioni che lasciano con gli occhi sgranati i nostri vicini di casa europei (i miei insegnanti di inglese non si erano mai sentiti dire che ventisette anni sono troppi per un lavoro.).
Molta gente non sa, troppa gente si beve quello che viene detto dalla TV e liquida con frettolosa distrazione quelle poco rassicuranti situazioni così diverse dall’immagine spensierata e sentimentale dei giovani, che tanto va di moda.
Forse, per ora, chiedere di farci ascoltare anche in sede istituzionale è una chimera, anche se prima o poi le cose dovranno cambiare, ma un obiettivo immediatamente raggiungibile che tutti i precari, i disoccupati, i sottoccupati, i lavoratori in nero devono perseguire è rendere la gente consapevole dello sfascio sociale che parte dal nostro quotidiano e silenzioso martirio.
Facciamo gli esempi? Ce ne sarebbero tanti, mi viene in mente il rischio di saltare una generazione, perché quando a 35 anni si è co.co.pro, c’è poco da pensare all’orologio biologico, tiri dritta a testa bassa ingoiando i tuoi se e i tuoi ma. E poi, le casse dell’INPS, povere in entrata e larghe in uscita, e i consumi.
L’umiliazione di un’intera generazione è anche l’umiliazione dell’intero tessuto sociale che vive solo in quanto e per quanto sia proiettato verso il futuro.
Su un giornale, ho letto una frase molto bella sull’attuale situazione lavorativa, che diceva più o meno così: un paese a tempo determinato è un paese senza futuro, appiattito su un presente incerto, senza slancio, senza energia, senza speranza.
Iniziare rende consapevole la gente comune della situazione può essere un primo obiettivo, perché in democrazia lo Stato è la casa di tutti, e una spina sotto il piede del vicino azzoppa la comunità. Se questo senso che ha fatto la storia si è perso, è ora di recuperarlo almeno un po’.
E’ una battaglia contro i mulini a vento, solo – però - se la combattiamo ognuno per conto suo.
Per questo sia io, dottoressa in Legge che fa le pulizie negli uffici altrui, e la ALI, ed altre persone ancora stiamo lanciando iniziative per permettere ai precari di avere almeno voce, perché senza voce mai avremo peso, e senza peso ci limiteremo sempre a sopravvivere.
Potete trovare le prime informazioni su
http://precari-diritti-futuro.splinder.com/

Questo sito – si appoggia su splinder solo temporaneamente e per la comodità nell’aggiornamento, è una prima fase di rodaggio e raccolta adesioni – spera di poter diventare un punto di ritrovo per chiunque abbia coscienza sociale della situazione, e voglia provare ad abbozzarne un cambiamento.
Idee, testimonianze, contributi, aiuti pratici sono accetti e richiesti come l’acqua nel deserto: capisco che la disillusione sia tanta, è la stessa che provo anche io nei momenti peggiori, e tanto è lo smarrimento e la frustrazione.
Come comprendo bene che sotto il generico termine di “precario” si cela una galassia multiforme di situazioni lavorative: disoccupati, sottoccupati, parasubordinati; forzati della partita IVA, lavoratori in nero.
Però, più che guardare ciò che ci divide, cerchiamo di pensare a cosa ci unisce. E piuttosto che pensare in negartivo, all’inconsistenza sociale di ogni nostra richiesta, pensiamo in positivo, pensiamo al fatto che solo confrontandoci e dandoci a fare potremo avere la certezza di non avere vie di uscita.
Siamo giovani e giovanissimi e, spesso, abbiamo investito anni ed energie nella formazione. Siamo qielli che si sono sentiti dire a colloqui che la spinta ci vuole, o chiedere se per caso abbiamo intenzione di sposarci come se fosse l’equivalente di andera a lavoro sotto l’effetto di spostanze stupefacenti. Siamo quelli che hanno provato il mobbing senza avere un sindacato a tutela, e senza i soldi per pagare un avvocato. Siamo quelli che per prendere qualcosa a rate debbono chiedere la garanzia dei genitori, nella speranza che possano prestarcela. Siamo quelli che non si debbono ammalare, che ingoiano in silenzio clausole contrattuali dell’altro mondo e sopportano le conseguenze di leggi incompiute e incrongruenti. Siamo insoddisfatti, incompiuti, disillusi.
Ma dobbiamo trovare anche noi al forza di cercare una voce, uscire da questa identità impostaci da altri e trovare la forza di farci sentire: la nostra generazione è questa ed è inutile piangere sul latte da altri versato. Ogni generazione ha il suo spettro da combattere: i nostri nonni combatterono dittature e guerre, i nostri genitori per una società più libera, a noi tocca combattere per una società equa, e se possiamo farlo é perché prima di noi non tutti hanno detto “tanto non serve a nulla”.
Certo, non mi illudo che questi embrionali nuclei aggregativi virtuali possano avere chissà che miracoloso effetto: sarebbe un film americano, non la nostra realtà. Ma credo che per ogni cammino ci debba essere un inizio, e se anche una sola persona spererà o una diventerà consapevole, allora potremmo dire che siamo stati bravi. E’ giusto farlo per noi e per i nostri sogni, d’altronde se un miglioramento è totalmente potenziale, abbiamo la certezza che la nostra situazione comunque non potrà peggiorare, per cui sintonizziamoci e proviamoci.